Livorno, 16.06.2018
In questi giorni ci ha raggiunto la notizia che il 6 giugno scorso un uomo di 58 anni si è tolto la vita nella casa circondariale di Livorno. A distanza di tre giorni, il 9 giugno, un trentottenne si è suicidato nel carcere di Taranto.
Sono 55 i suicidi in carcere dall’inizio del 2018 secondo un dossier pubblicato da “ Ristretti Orizzonti”. Abbiamo già con forza denunciato la gravità di questa ennesima tragedia, che colpisce una persona privata della libertà personale, uscendo con un nostro comunicato sugli organi di stampa locale.
Sentiamo, tuttavia, la necessità di continuare a tenere viva l’attenzione non solo su quest’ennesimo suicidio, ma sui problemi in cui versa l’istituto penitenziario della nostra città, perché riteniamo che solo in questo modo si possa davvero uscire dalla morsa perversa che nasce dall’occhiuta convinzione che “buttar via la chiave” sia l’unica soluzione per garantire la sicurezza dei cittadini; perché possa finalmente farsi largo, nell’opinione pubblica, una riflessone più aderente alla realtà, che passi attraverso la presa d’atto che sia iniquo oltre che errato identificare la persona ristretta in vinculis unicamente con il crimine che ha commesso. Ricorrere a questa equazione sterilizza la complessità di ogni vicenda umana ed annulla, dietro una sterile semplificazione, l’attitudine di ogni persona ad affrancarsi dai propri errori.
Dunque, di carcere si continua a morire. Ed è fenomeno allarmante legato a filo doppio proprio con la qualità della pena. Laddove non vi siano occasioni di recupero o ambienti destinati alla socialità, la perdita di speranza si fa sempre più acuta e culmina, come a Livorno, nella disperazione dei gesti più estremi.
Intervenire si può e si deve: non ricorrendo alle c.d. “celle lisce” di isolamento dei reparti di osservazione psichiatrica, dove spesso vengono destinate le persone più fragili. Ma, in prevenzione, riprogrammando gli spazi in modo da garantire che la pena da scontare sia solo quella comminata e non quella, ulteriore ed ingiustificata, della perdita della dignità. Occorre agire sul fronte della qualità della pena: dunque destinando spazi alla socialità, a laboratori, a corsi di formazione.
In tale ottica, abbiamo constatato con soddisfazione che anche l’Amministrazione locale si sta impegnando per non far cadere nel dimenticatoio gli annosi problemi strutturali che affliggono il nostro carcere: da anni, anche noi avvocati livornesi con il sostegno dell’Unione delle camere penali italiane, abbiamo più volte denunciato la fatiscenza di quei luoghi. Il reparto c.d. “ex transito” destinato ad accogliere detenuti in media sicurezza, è ai limiti della dignità umana. Il paradosso è che – chiuso il locale docce ( luogo che solo ricorrendo ad un eufemismo potremmo definire insalubre) – anziché provvedere ad una ristrutturazione, si è ovviato al problema in altro modo: i detenuti vengono portati in altri reparti per consentire loro di usufruire di bagni più decenti. Così creando immaginabili disagi e attese per provvedere ai più normali bisogni fisici. Ancora: di altrettanta gravità l’annosa questione della cucina. Realizzata e pronta per essere utilizzata, è in attesa di essere collaudata per problemi ancora non chiari, né chiariti.
Il sindaco Nogarin, con il Garante locale Giovanni De Peppo, è intervenuto per stigmatizzare questa situazione in una conferenza stampa indetta in comune lunedì 11 giugno alla presenza e con l’intervento del Garante regionale, Franco Corleone.
Ma non basta. E sono proprio le parole di Franco Corleone che hanno destato in noi la necessità di denunciare l’ennesima situazione critica.
A quanto appreso nel corso della conferenza stampa i luoghi del reparto di Alta Sicurezza destinati alla socialità verranno chiusi per essere destinati ad ospitare le c.d. aule del processo a distanza.
Al danno del processo a distanza – che già di per sé costituisce l’inaccettabile compressione del diritto di alcuni imputati di prendere personalmente parte al proprio processo- si aggiunge la beffa.
Quella di essere contemporaneamente, in un sol colpo, sviliti di due prerogative minime, in uno Stato che ancora si ammanta di essere considerato “ di diritto”: partecipare personalmente al dibattimento nel quale si accertano le responsabilità del detenuto; godere di spazi di socialità che costituiscono uno dei primi passi verso quella finalità di riedizione della personalità che potrebbe favorire il recupero sociale di chi, condannato, non potrà per sempre essere associato al reato di cui è accusato o che ha commesso.
Per tali motivi, laddove dovesse essere confermata questa decisione del Provveditorato, la camera penale di Livorno si riserva di intervenire con iniziative locali volte a promuovere il rispetto dei più elementari diritti delle persone detenute.
Il direttivo della Camera penale di Livorno