238 giorni, quasi otto mesi.
Sono un tempo interminabile, infinito, per lasciarsi morire combattendo con l’unica arma della quale si dispone dentro un carcere di massima sicurezza: il digiuno.
E’ la storia di Ebru Timtik, avvocata per i diritti civili in Turchia, detenuta nel carcere di Silivri, a 70 km da Istanbul e deceduta lo scorso 27 agosto.
Pesava 30 kg. Accusata e condannata, dopo un “processo farsa”, a scontare 13 anni di reclusione insieme ad altri 17 colleghi appartenenti all’associazione CHD (Cagdas Hukukcular Dernegi, Pregressive lawyer association). Lasciata morire in vinculis nonostante le numerose istanze di scarcerazione presentate dai suoi legali e respinte una ad una da un sistema giudiziario che si è fatto braccio armato di un esecutivo reazionario e repressivo. L’accusa: aver difeso gli oppositori al regime di Erdogan.
In altri termini, aver esercitato la propria funzione di difendere. Tradotto, nel gergo sovranista, aver fiancheggiato terroristi. Ancora una volta, in Turchia come in altri paesi, in forme e declinazioni diverse, si insinua, quando in modo subdolo, quando in modo plateale, l’idea che gli avvocati siano difensori del crimine. E non difensori dei diritti: il diritto a un processo equo, al rispetto delle regole, valevole per tutti gli imputati, qualunque sia il reato per cui si procede.
La cultura del sospetto, figlia dell’autoritarismo e di tutte le ideologie che inneggiano alla repressione come cifra di una legittimazione che fa strame dei diritti civili, finisce con l’indulgere ad una narrazione che sempre più spesso, anche nella nostra “civilissima” Italia, lascia trasparire una pericolosissima identificazione tra difensore ed assistito, il primo concorrente del secondo. I social sono imbevuti di commenti minacciosi e ostili verso avvocati e avvocate che osano assumere la difesa di “imputati scomodi”.
Attaccare un difensore significa privare i cittadini di un presidio fondamentale.
Lungi dal voler azzardare rocambolesche sovrapposizioni tra Paesi diversi e distanti sul piano politico e storico, non possiamo liquidare la tragica fine di Ebru Timtik come un problema chiuso entro i confini della Turchia. Ad ogni latitudine, purtroppo, accade – in modi diversi e per ragioni diverse – che la funzione difensiva sia oggetto di attacchi inaccettabili.
Certo è che, oggi, in Turchia, si vive in una condizione di vertiginosa privazione dei diritti. E il processo a carico dei membri del CHD ne è un tragico esempio. Come hanno scritto i colleghi dell’Osservatorio nazionale “avvocati minacciati” dell’Unione delle camere penali italiane – a cui va il nostro sentito grazie per la tenacia con cui da anni tengono accesi i riflettori sulle violenze subite dagli avvocati e dalle avvocate di tutto il mondo a causa dell’esercizio della loro funzione – il processo a carico dei membri del CHD è stato celebrato da una Corte penale (la famigerata 27ma sezione, dedicata ai reati politici) longa manus dell’Esecutivo, sulla base di dichiarazioni rese da testimoni mai interrogati dai legali, con capi d’accusa conosciuti solo pochi giorni prima del processo, ricorrendo a prove informatiche di dubbia provenienza. Una sentenza di appello di due pagine, confermativa della prima, che non si è concentrata su nessuna delle censure dedotte dai difensori degli avvocati, detenuti in isolamento, ormai da due anni.
Un processo senza forme è solo una messa in scena.
E per quanto imperfette esse siano, come ricordava l’Avv. Serafino Famà, ucciso perché avvocato dalla mafia, “esse hanno il potere di proteggere”.
Ebbene, nessuna forma ha protetto Ebru Timtik.
Morta, va detto con forza, a causa di una messa in scena che l’ha privata della libertà, della dignità, dei suoi diritti civili e politici, della sua vita. E stessa sorte potrà colpire anche Aytac Unsal, suo collega, come lei in sciopero della fame.
Il sacrificio di Ebru Timtik non deve essere dimenticato.
Nè quello dei suoi colleghi del CHD; né quello di Nasrin Sotoudeh condannata in Iran a 33 anni di carcere e 148 frustrate rea di aver “promosso l’immoralità e l’indecenza” per la sua attività di avvocata dei diritti delle donne; né quello di Michael Siegel, di Hans Litten, di Angelo Bettini, di Fulvio Croce, di Serafino Famà, di Teng Biao, di Guo Feixiong, di Chen Guangcheng, di Choukri Belaid, di Abderraouf Ayadi, di Antonio Trejo, di Negad El Borai, di Mahienour El-Massry, di Ramazan Demir, Aise Acinikli, di Stanislav Markelov, di Sirikan Charoensiri, di Anwar Al-Bunni, di Reinaldo Villalba, di Valdenia Aparecida Paulino Lanfranchi, di Pavel Sapelko, di David Pena Rodriguez, di Karla Micheel Salas Ramirez, di Nabeel Adib Abdallah, di Namal Rajapakshe, di Manjula Pathiraja. E di molti altri.
La loro voce deve diventare la nostra voce; la loro battaglia, la nostra battaglia; la loro toga, la nostra toga.
Perché, come ha scritto il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Instanbul, “[…] Noi siamo avvocati. […] Siamo noi che con la nostra presenza rendiamo il processo equo. Se ci fate uscire dalle sale, fate uscire anche la giustizia. Qualsiasi assalto nei nostri confronti è un assalto fatto contro il popolo e alla sua libertà di cercare la giustizia. Noi rappresentiamo il popolo nei processi […]”.
Il direttivo della Camera penale di Livorno

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