In questi giorni abbiamo appreso la tragica notizia che un uomo, ultraottantenne, detenuto presso la casa circondariale di Livorno e colpito dal Covid 19, non ce l’ha fatta.
E’ venuto a mancare anche a causa di un preesistente quadro clinico già fortemente compromesso.
Il virus lo ha stroncato in pochissimo tempo.
Un drammatico epilogo già preannunciato durante la prima ondata di questa pandemia: i suoi difensori, fin dallo scorso mese di marzo, avevano presentato istanza affinché venisse concesso il rinvio dell’esecuzione della pena e la traduzione presso il domicilio, a causa dell’imperversare della pandemia e del rischio di contagio che, considerate le pregresse patologie da cui era affetto, lo avrebbe sicuramente messo in pericolo di vita.
Istanza inascoltata: una situazione, la sua, considerata stabile e, in ogni caso, fronteggiabile nell’ambiente inframurario.
Così non è stato. Purtroppo la potenziale letalità di questo virus su un soggetto così a rischio è divenuta reale.
Anche alla luce di quanto accaduto è divenuto, davvero, improcrastinabile trovare soluzioni eccezionali, effettive e adottare con urgenza strumenti efficaci volti a garantire la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, al fine di salvaguardare la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari per evitare il ripetersi di tragici episodi come questo.
Le carceri sono ambienti insalubri, sovraffollati. I detenuti sono costretti a vivere in spazi angusti spesso ben al di sotto della soglia della dignità che, per la giurisprudenza, corrisponde… a tre metri quadri, al netto degli arredi fissi.
Questa è l’unità di misura, perché di misure, di calcoli e non di vite umane si parla nelle sentenze, per definire degna (o meno) la vita delle persone ristrette.
Facciamo due conti, allora. Togliamo dai tre metri quadri il metro di distanza che siamo tutti chiamati a osservare. Questo è il carcere al tempo del Covid. La sopravvivenza si calcola al metro e quelli dei detenuti non bastano.
Ecco perché le persone recluse, costrette a vivere a stretto contatto e a rischio, elevatissimo, di contagio, sono tra le persone più vulnerabili.
E dentro queste mura, in cui troppo spesso la vita e la morte si somigliano, il contagio avrà, e già comincia ad avere, effetti devastanti.
Il governo, ancora una volta, risponde con disarmante inettitudine.
Una goccia nell’oceano è l’ultimo decreto che, a dispetto del titolo, non è capace di ristorare una situazione che oramai è gravemente, strutturalmente, al collasso.
Come da migliore tradizione italiana si intende intervenire, ancora una volta, con inefficaci e deboli strumenti a fronte di una situazione carceraria da anni foriera di continue violazioni dei diritti umani ed, oggi più che mai, esplosiva.
Niente di nuovo sotto il sole: detenzioni domiciliari condizionate, ancora una volta, all’uso di braccialetti elettronici (fatta eccezione per pene residue di 6 mesi e per i minorenni) che, come noto, sono in numero esiguo rispetto alla popolazione detenuta.
Sbagliando si impara, recita il proverbio.
Ma ce n’è un altro ancora più calzante: sbagliare è umano, perseverare è diabolico.
Sarebbe bastato verificare i dati emersi dalle pronunce dei magistrati di sorveglianza per rendersi conto della sostanziale inapplicabilità della detenzione con braccialetto elettronico: i provvedimenti di scarcerazione del primo periodo dall’inizio del contagio non sono stati emessi in base all’art. 123 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “cura Italia” che già aveva previsto questo sistema di tracciamento elettronico dei detenuti in regime domiciliare. Si è fatto invece ricorso alle norme dell’ordinamento penitenziario già esistenti. E quando queste stesse norme hanno consentito la fuoriuscita dal carcere di persone a fine pena e gravemente malate, all’esito di istruttorie complesse (previste dalla legge) ecco che si è corsi subito al riparo. “Riacchiappiamo i mafiosi” – ha tuonato la stampa – “sono 376 quelli usciti dal carcere”. E il governo ha riposto immediatamente con i decreti legge emessi a cavallo di aprile e maggio (il 28 e il 29 del 2020) che hanno determinato il reingresso delle persone spesso in carceri diversi da quelli di provenienza e con istruttorie inaudita altera parte. L’audience di una trasmissione televisiva, si sa, è il prequel dell’urna elettorale. Poco importa che i boss mafiosi scarcerati, come si è effettivamente accertato, fossero solo 3 e non 376.
E anche oggi, nel pieno della recrudescenza della pandemia, con numeri da capogiro e con l’imperversare di un virus che ormai ha varcato le soglie dei nostri penitenziari, l’accesso alla detenzione domiciliare appare, ancora una volta, inefficace e estremamente limitante: numerosissimi i delitti ostativi, eccessivamente ridotta nel massimo la pena detentiva non superiore ai 18 mesi, ancora una volta discriminatoria la previsione dell’idoneità del domicilio per tutti quei soggetti che risulteranno senza fissa dimora ovvero privi della stessa nonché, da ultimo, utopica la previsione dell’applicazione di mezzi di controllo elettronici già oggigiorno scarsamente reperibili.
In sostanza, il bilancio finale appare nuovamente drammatico ed incapace di far fronte alle esigenze umane e sanitarie che le circostanze richiederebbero.
Il tutto a scapito della vita umana, con buona pace dei diritti fondamentali.
Ma si sa, di carcere si muore.
Livorno, lì 31/10/2020
Il direttivo e la commissione carcere della Camera Penale di Livorno